Circondati dalle nebbie di un non luogo, ci troviamo dinnanzi a dei personaggi altolocatissimi. Il
primo di essi è venuto per chieder conto al padre di quali siano i doveri ed i privilegi che
comporta questo essere figlio suo. Il secondo, il padre, sembra tergiversare dinnanzi a queste
richieste. Infine il terzo è venuto perché anch’egli può trarre degli interessi da questa unione.
Ed è proprio il terzo personaggio, questo diavolo, un po’ triste e un po’ ironico ad introdurci in
un quadro familiare terribile: quello di Lui, di Dio e di suo figlio Gesù. Parla di un Dio pessimo,
ambizioso e insensibile più di chiunque altro alla pena ed al dolore. Unico scopo, dominare
sulle genti. Ben venga se utile, il sacrificio dell’unico figlio e altre nefandezze tali da far sperare
il diavolo stesso, che non venga attribuita a lui la colpa di tutto questo.
Un progetto che si porta dietro la più orrenda, interminabile scia di morte, soprusi e nefandezze
che la storia ricordi e che è ancora miracolosamente in vita oggi. Progetto fin troppo umano e
materiale per essere “volontà divina” che da un lato sottrae al testo ed ai personaggi un peso
altrimenti insostenibile e dall’altro mette in risalto la “mollezza” di una società facile da plasmare
e controllare. Il fortissimo disagio del personaggio (“come un’ape in un luogo senza fiori”) è
anche il nostro e probabilmente di molti, nei confronti di una cultura che da millenni ci opprime
facendo leva su un assurdo ricatto morale. Disagio che ci porta a lanciare questa
provocazione, per niente velata dati gli argomenti in questione, anche se l’intento, più che
sollevar polemiche dovute alle parole grosse, è un invito ad una riflessione intima.
Vincitore Playfestival 2014
Premio Argot Off Roma 2011
Premio dello spettatore, Bologna 2010
Premio Scenario 2009
Trailers
Recensioni
Andrea Pocosgnich è un critico teatrale. Fondatore e redattore di Teatro e Critica.
Quando la mente rimane colpita da ciò che ha visto la sera prima, qualunque cosa possa essere accaduta durante la notte, in una mattinata piena di stanchezza richiudendo per un attimo gli occhi (anche solo quelli della mente) l’immagine rimane impassibile lì, impressa come quel baluginare stampato stampato sulla retina dopo l’incauto sguardo verso un sole d’estate. A uno che può arrivare a vedere anche tre spettacoli a settimana un’esperienza del genere capita sempre con minor frequenza, ma ogni volta è un’epifania.
Fortunatamente questo mi è accaduto con il lavoro del trio milanese Odemà, ritrovati in uno degli appuntamenti di TeatrInScatola, rassegna ideata da Straligut e capace di creare l’abitudine teatrale una volta a settimana riempiendo gli 80 posti del Lia Lapini con un giovane e curioso pubblico.
Chiudendo gli occhi adesso ritrovo d’improvviso il volto posticcio di Giulia D’Imperio, un Dio donna, vecchia, dal broncio duro e immobile, incurvata sulla schiena, che difficilmente ti guarda negli occhi perché i suoi loschi traffici, come poi mi racconterà proprio Giulia, avvengono tutti all’altezza del torace, come in un certo Totò.
Ho detto “ritrovare” perché avevo già incrociato Davide Gorla, Enrico Ballardini e Giulia D’Imperio a Short Theatre di due stagioni fa quando grazie alla Selezione Scenario facevano girare solo una ventina di minuti di A tua immagine. Già in quell’occasione lo spettacolo mi colpì. C’erano tutti i segni di un percorso che ora con piacere sono riuscito a trovare nel suo avanzato stato di maturazione.
I tre giovani artisti dichiarano Goethe, Saramago, Pessoa e naturalmente i vangeli, ma nella stratificazione fisica delle azioni vi troviamo un interessante debito a Kantor (che d’altronde a Milano ha lasciato parecchio), non tanto in riferimento alle teorie più celebri del Teatro della morte o dell’attore/manichino, più che altro nella scrittura scenica che si muove su un doppio binario. Da una parte vi è il testo (intelligentissimo, caustico e violento solo come la più acuta ironia potrebbe essere) nel quale troviamo Gesù che chiede a suo padre perché è stato messo al mondo e un diavolo che fa da grillo parlante accettando a malincuore il piano “demoniaco” di Dio, ovvero quello di conquistare tutto il pianeta, di diventare il Dio di tutte le genti anche se questo può voler dire stragi, bagni di sangue e il sacrificio del figlio su una croce. In parallelo al testo corre invece il binario della forma scenica, della multiforme performatività del trio milanese, fatta di corpi nascosti sotto un lenzuolo che li trasforma da emballage (per tornare a Kantor appunto) a bozzoli scultorei, corpi che plasticamente si incastrano l’uno all’altro, semplici oggetti capaci di invertire i piani della realtà.
Questo binario, quasi mai illustrativo – se lo è, la sua modalità è talmente esplicita da utilizzare un semplice e divertentissimo teatrino delle ombre per raccontare le crociate- tende a scorrere parallelo al testo incrociandolo talvolta con immagini amplificanti e in altre occasioni con materiali drammaturgici di “bassa qualità”, l’effetto è quello straniante, divertente e lancinante del cabaret nel quale allegramente tra un tip tap e l’altro vengono cantati i nomi dei martiri e le torture che li hanno uccisi.
Beninteso lo spettacolo, a mio avviso da non perdere per la leggerezza con cui riesce a far danzare certi pensieri sul palco (anche grazie alle musiche e alla chitarra di Ballardini), non è dedicato solo agli atei convinti, ma anzi si configura più facilmente come un’indagine sull’umano. Su ciò che l’uomo è capace di fare per il potere, sull’incapacità delle masse di rimanere critiche rispetto alla divinizzazione di chi questo potere lo incarna.
La visione è dunque consigliata a un pubblico eterogeneo, di ogni età, orientamento sessuale, religione, grado culturale e colore politico.
Andrea Pocosgnich
Massimo Andaloro è ballerino, coreografo, direttore artistico della sua scuola di danza Genia Ballet.
Il teatro non è la mia competenza primaria tanto che la prima importante osservazione scaturita dalla visione di A tua immagine riguarda la capacità della compagnia Odemà di aver usato i loro corpi, di aver danzato senza danzare. Muovendosi nello spazio, rotolandosi, trasformandosi in sagome, ombre gigantesche o ancora nascondendosi e rivelandosi con una naturalezza capace di alleggerire l’intensità di un testo che arriva dritto allo stomaco per mettere in discussione ciò che da sempre sottende al vivere umano.
Un dialogo a tre serrato, alternato da momenti farseschi e da siparietti da cabaret, per dirci che l’uomo è rappresentazione di debolezza e inferiorità. E’ manipolato, indirizzato, manovrato come una marionetta per un unico grande scopo: l’affermazione di un potere che non ammette sconti. Ed è per questo forse che il suo rappresentante, Gesù Cristo, viene dipinto in tutta la sua insulsa ordinarietà di colletto bianco ben pettinato e vestito come un qualsiasi impiegato di un qualsiasi e burocratizzato ufficio. Perché deve eseguire il compito, deve obbedire annullando libero arbitrio e individualità. Perché Dio, suo padre, ha deciso di orchestrare un complotto alle spalle dell’intera umanità e, complice il diavolo, si comporta come il più cinico dei manager o governanti, considerando morti e sacrifici come naturali, ma indispensabili incidenti di percorso per il raggiungimento di un obiettivo. E ci balla sopra senza scrupoli e con un ghigno sulle labbra. La sua avidità è in una postura innaturale, posticcia, macchiettistica; la sua spregiudicatezza è in una nudità oscena e scomposta, in una capigliatura disordinata; la sua sete di onnipotenza è nella premeditata volontà di mandare suo figlio a morire, misurandone la lunghezza delle braccia come un becchino. Il diavolo, menestrello e giullare di corte, sembra essere meno diabolico e più sottomesso al volere di chi lo cacciò dal paradiso. Un servitore rassegnato, complice e doppiogiochista che canta De André, che commenta ed analizza.
I corpi si intrecciano in violente lotte (l’uomo per affermarsi, Dio per annichilire), in danze grottesche e nelle riproduzioni sarcastiche di oggetti e simbologie cristiane. La pietà michelangiolesca più volte suggerita e modellata sui corpi stessi degli attori e con l’aiuto di un telo, non fa altro che creare questo forte contrasto fra una religione idealizzata ed una trasfigurata da passioni e pulsioni attribuite principalmente alla natura umana.
Odemà costruisce una rappresentazione che nella Storia trova gli estremi di una attualità abbrutita e violenta. E fa riflettere sulla natura umana e sulle dinamiche alla base dei rapporti quotidiani, ma non solo. Perché governanti di ogni razza e religione agiscono applicando le stesse regole fatte di adattamento della morale, sfruttamento e modellamento di società molli, facili da plasmare e controllare.
Massimo Andaloro
Dio, il diavolo e qualcun altro: A tua immagine di Odemà
Articolo di Roberta Ferraresi • 13/08/2011 • Versione Stampabile
Recensione di A tua immagine – Odemà
All’inizio A tua immagine, spettacolo di Odemà sul rapporto fra il divino e l’umano e le sue mille possibili variazioni, non ha forma, com’è giusto che sia. C’è prima un dialogo di luci, fra 2 lampadine appese a mezz’aria in centro al palco. Poi tutto succede sotto un lenzuolo che fascia quelli che si scopriranno essere i corpi dei protagonisti, come in una scultura di Christo. A tua immagine fa incontrare le più grandi icone che l’umanità ha voluto ideare – il diavolo, dio e suo figlio – portando in scena con intelligenza e ironia il prologo della creazione della religione cattolica. Il divino e l’umano in tutte le possibili declinazioni e contaminazioni, appunto: dove un dio permaloso è mosso da ambizioni tanto, troppo, umane e la ferocia del diavolo lascia spazio a momenti di piccola umanità. E il figlio? Lui (Davide Gorla), al centro del progetto del padre e del suo antagonista storico, è il punto di vista dell’uomo, è il portatore del buon senso del dubbio. Coinvolto senza volerlo, tirato da un lato e rilanciato dall’altro, strattonato, scavalcato, superato; chiede le ragioni della sua venuta al mondo, le conseguenze del suo cammino, i futuri possibili delle sue azioni. Il padre gli risponde con sconcertante chiarezza, mettendo in luce duemila anni e più di contraddizioni e conflitti della religione cattolica.
Sembra una versione abbastanza consueta delle riletture possibili delle vicende bibliche in chiave moderna. Solo che qui, dio (Giulia D’Imperio) è una donna arruffata e capricciosa, di un’energia rara, mentre il diavolo (Enrico Ballardini) un emblema del cantautorato europeo, che accompagna lo svolgersi dei fatti con canzoni originali che strizzano l’occhio a De André. E anche la collocazione della vicenda è inconsueta: appunto, non una rivisitazione contemporanea della storia e dell’immaginario cattolico, ma un punto di vista tutto originale – il prologo, quindi il momento della progettazione e dell’invenzione, capace di mettere in luce ambizioni e conflitti, compromessi e sopraffazioni. Perché il figlio di dio, in questo spettacolo, non ci pensa proprio ad accontentare il padre: mica vuole diventare il fondatore di una religione destinata a dominare il mondo – come in tutti i più classici confronti padre-figlio. In mezzo, ci sono la brama di potere degli uomini, le loro ambizioni incontenibili; e i martiri, le crociate, le incomprensioni…
Mille e uno sono i registri e i linguaggi attraverso cui questo conflitto si realizza: ci sono momenti di grande lirismo (che a volte rischia leggermente il melodrammatico) e altri decisamente di cabaret, monologhi incalzanti e spazi dedicati alla canzone, teatro d’ombre, avanspettacolo e musica elettronica. Certo l’insieme rischia qualche volta di diventare sovraccarico o cacofonico, ma la dimensione attoriale (vera protagonista di A tua immagine) è sempre lì a ricucire, recuperare, rilanciare. È un gioco d’attore, di gesti e di sguardi, di mimica, pose ed espressioni, che in scena dà vita a una tensione modulata con grande precisione, particolarmente efficace nei momenti di sospensione, un po’ meno quando deflagra in una fisicità che riempie tutto il palco. Assieme alla potenza attoriale, esplorata in tutte le sue possibilità fisiche e vocali, c’è l’altra faccia del teatro, quella della piccola magia che si può ottenere in scena; fra una trovata e l’altra – tutte soluzioni intelligenti nel loro minimalismo e discrezione, polverose come i primi spettacoli di Emma Dante o prossimi all’immaginario di Kantor – il pubblico viene accompagnato nel mondo surreale e sorprendente dell’artigianato teatrale, dove delle mani possono diventare persone, un attore si trasforma in gigante, un dialogo fra due figure sedute cambia prospettiva, mutando il suolo in parete e il muro in nuovo pavimento. È la realtà magica della scena a dominare lo spettacolo e il lavoro dei tre attori, sempre con degli inquietanti sguardi fissi sul pubblico, stralunati e interrogativi, sospesi fra stupore e dubbio.
A tua immagine sembra amalgamare con sapienza un’ampia varietà di fonti (tematiche quanto teatrali, ma anche letterarie, cinematografiche) in un tutt’uno organico ben calibrato e ritmato, in una composizione accorta che non lascia distrarre neanche per un minuto, perché quando la struttura è sul punto di sfilacciarsi e lasciarsi andare è già pronta una nuova trovata a riacchiappare quegli sguardi che si stavano per allontanare. Al centro, un processo preciso e divertente di demistificazione dei dogmi e delle contraddizioni con cui la religione – non solo cattolica – si è imposta come potere secolare; la riflessione sulle strutture fondanti del tuttora inevitabile riferimento che da spirituale tenta l’esclusiva socio-culturale, si rivela immediatamente un attraversamento, sempre puntuale e non didascalico, dei topos della condizione umana (dal conflitto generazionale alla famiglia, dalla dimensione di coppia alla rivalsa del potere individuale). È curioso notare poi, come queste linee narrative e sceniche ben sviluppate, in certi momenti sembrino lasciare spazio a una altrettanto profonda critica degli schemi fondamentali del sistema teatrale, dove il rapporto umano/divino si trasforma in quello fra attore e regista.
I tre attori di Odemà, in un excursus preciso e leggero, sanno così mettere in luce le contraddizioni alla base del pensiero occidentale – religioso, culturale o sociale che sia – usando “solo” un pacchetto di figurine (dei diversi modi in cui sono stati uccisi i martiri cristiani) e tante altre piccole trovate sceniche, senza rischiare il didascalismo né la deriva kitsch. Forse, il vero punto di forza di tutto il lavoro, più che inventare un proprio linguaggio inedito, si trova proprio nella coscienza e nella precisione con cui è affrontato il processo compositivo, che si fonda sull’intreccio fra riferimenti colti e cultura pop, fra differenti generi teatrali e linguaggi artistici.
Li avevamo scoperti grazie alla segnalazione del Premio Scenario nel 2009; li ritroviamo dopo due anni ancora più grotteschi e “guitti”, sempre profondamente irriverenti ed espressionisti, calcati come sono dalle smorfie e dalla ribaltina d’avanspettacolo; fra tutta la sporcizia voluta, la polvere di palcoscenico si potrebbe dire, sono cresciuti guizzi individuali e una sinergia attoriale di tutto rispetto – che ci si augura possa trovare presto nuovi progetti e ulteriori esiti dopo questa prima promessa ben mantenuta nei suoi due anni di maturazione.
Visto a Kilowatt Festival 2011, Sansepolcro
Roberta Ferraresi