Quando usciremo

Dentro una fogna ancora piena di corpi senza vita e adibita a bunker, sopravvivono un
insurrezionalista anarchico e un arruolato sovietico. Fuggiti da una disfatta militare, la
loro ultima visione del mondo in superficie è lo scheletro carbonizzato di un luogo, non
meglio precisato, che supera in orrore la stessa apocalisse. Proprio quell’anno in cui
grandi ideali stavano per trionfare. Proprio quell’anno in cui il mondo finì.
La condizione umana drammatica e grottesca che si consuma dentro ad uno spazio
che è un buco nella terra o poco più e popolato da resti umani, è paragonabile alla
percezione che una mosca ha della bottiglia di vetro in cui è imprigionata: l’unico
mondo possibile. Così, questi due sciagurati, resistono ora nell’ilarità che si può
consumare alla vista di un insetto generato dalle loro feci, ora discorrendo
animatamente di anarchia, proprietà, potere, famiglia.
Ispirato a “Quando usciremo” di Gianni Hott, questo spettacolo è la lucida follia di due
personaggi beckettiani ma a differenza di Aspettando Godot, qui il rapporto con la
società che ha provocato la loro condizione è continuamente richiamata. In
“opposizione” o forse in opzione complementare a Beckett, Gianni Hott non rinuncia
alla provocazione estrema nei confronti della condizione che i due personaggi tentano
invano di risolvere: basta essere in due perché la società sia un problema.
Un pastiche teatrale comico e terribile. Il contenitore definito “uomo”, si apre a questo
punto nella prospettiva speculare di un confronto irrisolto con se stesso. Come sotto
l’azione di un immaginario apriscatole…

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Quando usciremo: l’ideologia tra bunker e fogna

Cosa succederebbe se due uomini rimanessero bloccati in una fogna, o in bunker, circondati da cadaveri e con le riserve alimentari agli sgoccioli?
Cosa sarebbe accaduto se il mondo fosse finito proprio nell’anno in cui GLI IDEALI, quelli maiuscoli per diritto divino, sembravano poter trionfare?

Prova a domandarselo Gianni Hott nella bella pièce “Quando usciremo ovvero l’anno in cui il mondo finì”, in questi giorni al Teatro della Contraddizione. In scena due uomini, interpretati dagli ottimi Enrico Ballardini e Davide Gorla. Unici sopravvissuti ad una non meglio precisata disfatta militare, i due provano a ricostruire una micro – società basata sulla condivisione del poco spazio e del poco cibo disponibile (solo scatolette di fagioli).

Ma questo esperimento di collettivizzazione delle risorse, pur nell’esiguità del numero dei membri che compongono questa comunità microscopica, fallisce miseramente, riproponendo da subito lo sfacelo di quella società appena annientata proprio sopra le loro teste.

Questo, in breve, il tema della pièce, che richiama in modo piuttosto evidente la riflessione beckettiana sul rapporto uomo – società. Ma laddove Beckett proponeva uomini che vivevano in apparente distacco con il loro stesso mondo, qui l’inserimento sociale (o il desiderio di inserimento sociale) è sempre presente, bramato. E sempre presenti, anche se talvolta con esiti disastrosi, sono i temi dell’anarchia, del socialismo o di una sempre più impossibile ideologia.

Per sfuggire alla trappola di uno spettacolo eccessivamente filosofico e anacronistico, i due attori – registi compongono uno schema scenico denso di riuscitissimi approfondimenti sul lavoro fisico, fino ad arrivare, talvolta, a sfiorare la coreografia, sempre rimanendo in coerenza con le dinamiche narrative.

Appare evidente la provenienza improvvisativa dell’intera messinscena, tutta giocata in uno spazio semicircolare, piccolissimo, in cui campeggiano soltanto una piccola scaletta e decine di scatole di fagioli. E così come i due superstiti sono i padroni del neonato regno, i due attori si prendono l’intera responsabilità dell’esito dello spettacolo, lavorando sulla loro intesa, molto buona, su un ritmo non stratosferico ma intelligentemente sempre tenuto in equilibrio, su una buona costruzione di personaggi e relazioni.

Uno spettacolo intelligente e insolito, che però può essere goduto al cento per cento solo attraverso un’adeguata preparazione alla storia del Novecento, costantemente richiamata: dalla guerra di Spagna all’Unione Sovietica, dai kibbutz israeliani a concetti come anarchia e collettivizzazione. Un buon esperimento, in ogni caso, che può stimolare nello spettatore la curiosità ad una ricerca più approfondita.

Massimiliano Coralli

Immaginiamo di trovarci ancora una volta Wladimiro ed Estragone in un tunnel senza speranza, in una sorta di fogna dove sono relegati a vivere da reclusi a causa delle conseguenze di un cataclisma ecologico causato dall’uomo. E immaginiamo anche che la loro sopravvivenza sia legata a… un apriscatole con il quale possono nutrirsi con innumerevoli scatole di fagioli.

Contrariamente alle conversazioni sotto l’albero di una landa desolata, qui il rapporto con la società che ha provocato la loro condizione è continuamente richiamata. In “opposizione” – o forse in opzione complementare – a Beckett, Gianni Hott non rinuncia alla provocazione estrema nei confronti della condizione umana che ha preceduto il dramma grottesco del presente. L’ilarità si può consumare dietro la gioia della vita di un insetto generato dalle feci dei due protagonisti, le situazioni comiche affondano il bisturi nell’angoscia quotidiana che l’aspettativa remota di poter uscire di nuovo all’aria aperta può consegnare come una rinnovata attesa di Godot.

Ben interpretata, con interazioni verso la platea come in un cabaret “dell’assurdo”, la piece solleva, pur divertendo, la condizione di un’umanità troppo distratta dai giochi di potere – basta essere in due, e già la società è un problema! – per identificarsi completamente con i valori della vita.
Il contenitore definito “uomo”, si apre a questo punto nella prospettiva speculare di un confronto irrisolto con se stesso. Come sotto l’azione di un immaginario apriscatole…

(Claudio Elli)

Sulla falsariga del capolavoro Beckettiano Aspettando Godot, Gianni Hott ne ha proposto un’originale riscrittura in cui i due noti personaggi, Wladimiro ed Estragone, anziché aspettare Godot ai piedi di un albero di una landa desolata si trovano costretti a vivere sottoterra dopo che un evento catastrofico, non meglio precisato, ha compromesso le chances di vita in superficie.

Un’ora e dieci di spettacolo in cui, accanto a frangenti di gustosa ilarità, si dipanano brevi ma intensi spazi di riflessione su temi delicati quali la famiglia, la proprietà, il potere, la morte, la democrazia. Di particolare intensità è, a riguardo, l’analisi proposta da una paludata voce trasmessa sulla scena secondo cui alla base del nucleo familiare riposano due pilastri: il potere e la proprietà. Per difendere questi ultimi, ragionando in negativo, si sarebbe pensato di costituire la formula delle unioni familiari. Alla serie di gags, inframmezzate da netti cali di luce, gli spettatori sentono ripetere sempre lo stesso interrogativo: “Quando usciremo?”. La medesima angoscia che serpeggia tra gli attori viene travasata sul pubblico, sovente invaso da uno spazio scenico d’improvviso dilatato. La precaria delimitazione tra gli ambiti di finzione e gli ambiti di realtà ammonisce, in fondo, sulla forza realistica dei temi affrontati.

La terrà è poi così lontana da rischi? Esistono o no studi su come fronteggiare eventuali catastrofi di natura antropica o naturale? I due personaggi di Quando usciremo sopravvivono di scatolette di fagioli e diatribe.

Al tempo, l’escamotage convenzionale teso a risolvere il problema della puntualità negli appuntamenti, l’ardua sentenza…

Piacevole.

di Antonio Alizzi